segunda-feira, 21 de junho de 2010

Bailarinas

Todas as expressões artísticas são maravilhosas porque libertam, mas nunca testemunhei sensação de leveza e liberdade tão grande como aquela manifestada através da dança. Com palavras escritas é possível criar heróis e vilões, percorrem-se longas distâncias sem sair do lugar. Com a dança o tipo de libertação é diferente. É poder expressar a dor com uma explosão dos braços, poder rodar o mundo com o giro dos quadris, poder alcançar o negro da noite com um salto perfeito sem precisar racionalizar os sentimentos. É seguir a música e deixar-se levar por onde ela quiser, é aprender a flutuar num palco, é dizer com o corpo sem utilizar palavras. É completude de gestos e imensidão de sentidos. De todos os sentidos.
Não é possível reconhecer uma bailarina no meio da rua. Mas não se pode negá-la no palco. O palco transforma. O palco é casa, é você primitivo, é você verdadeiro. Bailarina no palco é criança correndo sem medo de ser pega, sem medo de cair. É criança pulando com a mais pura crença de que realmente pode voar.
Dizer com o corpo é uma das coisas mais belas e mais difíceis que existem. As pessoas são tensas, são contidas, andam encolhidas e com os braços cruzados. Uma bailarina só tem seu corpo para poder se comunicar. Não há como não vibrar com um movimento perfeito e não há como não chorar com mãos suplicando silenciosas. Não há como não desejar estar no meio delas e ser criança brincando de voar entre flores delicadas.
Dizem que bailarinas precisam ter corpos perfeitos, esguios e esbeltos. Quanto a isso, eu não tenho certeza. Já vi moças altas, magras, baixas e rechonchudas tornarem-se bailarinas maravilhosas no palco porque, mais do que terem um corpo perfeito, sabiam dominar seus corpos perfeitamente. Dominavam a linguagem de seus corpos e falavam fluentemente através deles.
Eu nunca seria uma bailarina. A falta de coordenação não me permite muitos progressos com a dança. Não conheço meu corpo tão bem e não o domino do jeito que gostaria e do jeito que seria preciso para ser uma bailarina. Mas eu continuarei desejando ser uma bailarina sempre que as vir no palco, flutuando. Continuarei desejando ser uma bailarina ao vê-las harmoniosas e libertas como lindas borboletas.

terça-feira, 1 de junho de 2010

Cosa sarà la sta Merica?


L’altro giorno sono andata al teatro per partecipare alla “serata italiana per la solidarietà” organizzata dal comune della mia città per raccogliere del cibo per i meno fortunati.
Non vorrei dire cavolate, ma sono quasi sicura che circa il 70% della popolazione della mia città abbia origini italiane. I primi italiani sono arrivati qui alla fine dell’ottocento e molti hanno coltivato l’uva e le fragole, ma la gente di Jundiaí coltiva tuttora un’altra passione: quella per il cibo e per la musica italiana. Ma quando parlo di musica italiana, mi riferisco a quella di tanti decenni o anche secoli fa: le arie delle opere più famose, canzonette regionali e tanta tarantella. Le mie zie, che hanno lasciato Teramo quando erano ancora molto giovani, ballano la tarantella tuttora nelle feste di famiglia. L’Italia che loro hanno lasciato e l’Italia per cui mi sono innamorata decenni dopo sono completamente diverse.
Il repertoire della serata è stato, dunque, adeguato all’immaginario colletivo che queste persone hanno coltivato in tutti questi anni. Un bravo tenore ha cantato delle arie famose e tanti cori hanno cantato le canzone che ho ascoltato sin da piccola senza capire neanche una parola. Io ho ascoltato tutto con una nostalgia imensa nel cuore e con alcune lacrime più ribelli che non sono riuscita a contenere. Mi ha colpito ancora di più una canzone molto famosa in Brasile, scritta nel 1875 da Angelo Giusti, emigrato italiano che ha vissuto nel sud del Brasile.

La Merica

Da l’Italia noi siamo partiti
Siam partiti col nostro onore.
Trenta sei giorni di macchina e vapore
E in America siamo arrivà.
Merica, Merica, Merica,
Cossa sarala sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.
A l’America noi siamo arrivati
Non abbiam trovato nè paglia e nè fieno
Abbiam dormito sul nudo terreno
Come le bestie abbiam riposà.
Ma l’America l’è lunga e l’è larga
È circondata da monti e da piani
E con l’industria dei nostri italiani
Abbiam formato paesi e città.

Mentre ascoltavo questa canzone mi è venuta in mente tutta la storia della mia famiglia, dei miei nonni e zii che hanno speso oltre un mese in una nave per arrivare in una terra completamente sconosciuta, in un tempo in cui il cellulare e l’internet non esistevano e la TV era ancora un lusso al quale non se lo potevano permettere. Ho pensato alla strada opposta che ho scelto di seguire 5 anni fa e tutte le cose che ho scoperto in Italia, le persone che ho conosciuto, i bei momenti che ho vissuto e i bei ricordi che mi sono riportata dietro. Ho pensato, finalmente, a come in questo momento mi sento una forastiera nel mio proprio territorio, rifiutando tutto quello che è diverso per poi digerirlo piano piano.
In questo momento non mi sento appartenere a questa città e a questo paese. Oggi sono io che mi faccio la domanda che si sono fatti i miei tanti anni fa: “Cosa sarà questa America?”
Il tempo mi aiuterà a trovare una risposta, mi farà capire quando sarà il momento di appartenere o di ripartire.